Miti e leggende su Roma: le più famose

Roma è una città davvero affascinante, ricca di storia, miti e leggende, alcune delle quali sono rimaste famose attraverso i secoli.

La fondazione di Roma

Nell’antico Lazio, due fratelli di nome Amulio e Numitore erano in lotta per ottenere il trono della città di Albalonga.

Amulio riuscì a cacciare il fratello costringendo la figlia, Rea Silvia, a diventare una vestale, in modo tale da toglierle la possibilità di sposarsi e dunque di generare possibili nuovi rivali per il trono. Rea Silvia venne però sedotta dal dio Marte e dalla loro unione nacquero due gemelli: Romolo e Remo. Amulio, venuto a sapere la notizia, ordinò che i due piccoli venissero uccisi al più presto ed inviò una guardia per compiere questo atto crudele.

La guardia non ebbe però il coraggio di togliere la vita ai due gemelli, dunque li nascose all’interno di una cesta affidandoli al Tevere ed alle sue correnti, sperando che qualcuno li trovasse per prendersene cura. Una lupa, che era scesa al fiume per abbeverarsi nelle vicinanze del Colle Palatino, udì il pianto dei bambini ed andò in loro aiuto portandoli via con sè, scaldandoli e sfamandoli con il proprio latte.

Di lì a poco passò da quelle parti il pastore Faustolo che, visti i piccoli gemelli accuditi dalla lupa, li portò a casa sua, felice di crescere quei figli che lui e la moglie non avevano potuto avere. Divenuti adulti, Romolo e Remo vennero a conoscenza delle loro vere origini, dunque si recarono ad Albalonga per uccidere lo zio Amulio e restituire il trono al nonno Numitore, liberando la madre che dopo la loro nascita era stata imprigionata. I due gemelli decisero di fondare una loro città, ma iniziarono ad avere molti disaccordi: Romolo avrebbe preferito il Colle Palatino, mentre Remo la pianura.

Per appianare le divergenze, si affidarono al responso degli dei: chi avesse visto più uccelli in cielo entro un certo tempo ed un certo spazio, avrebbe avuto il diritto di scegliere. La vittora andò a Romolo che subito prese l’aratro per tracciare il solco sacro a delimitare i confini della città. Remo non aiutò il fratello, ma anzi iniziò ad infastidirlo e schernirlo, al punto che Romolo si adirò tanto da ucciderlo, diventando così il primo Re di Roma, nell’anno 753 a.C.

Il ratto delle sabine

Una volta fondata Roma, Romolo dovette capire in che modo popolarla, avendo portato con sè alcuni pastori, ma nessuna donna. Per risolvere questo problema, organizzò una grande manifestazione, invitando i Sabini, le loro mogli e le loro figlie. Nel pieno della festa, i Romani scacciarono gli uomini con le armi, rapendo tutte le loro donne.

Tito Stazio, re della tribù sabina dei Curiti, venuto a conoscenza di quanto accaduto, guidò il suo popolo a Roma per vendicarsi dell’affronto e riprendere le donne. La dura battaglia tra i due popoli venne placata solo grazie all’intervento di queste, le quali chiesero un armistizio, in quanto ormai affezionate ai loro rapitori. Gli avversari si riappacificarono e Romolo regnò insieme a Tito Stazio formando un solo popolo. Dal nome della tribù di Tito Stazio, i Romani ebbero l’appellativo di Quiriti.

Le oche del Campidoglio

Questa leggenda narra l’assedio di Roma da parte dei Galli Senoni che, guidati dal loro re Brenno, cercavano di conquistare la città. Ai tempi il Campidoglio ospitava un tempio dedicato alla dea Giunone ed era popolato da numerose oche, sacre alla dea e dunque intoccabili. Quando i Galli attaccarono, i romani che abitavano a Veio e Caere corsero a rifugiarsi presso il Campidoglio dove dovettero rimanere per molti giorni.

Per placare la loro fame, si nutrirono di tutti gli animali presenti nella zona, risparmiando però le oche, nel timore di offendere la dea e perderne dunque i favori. Durante la notte, il soldato ed ex console Marco Manlio venne svegliato da un forte starnazzare proprio da parte di tutte quelle oche che erano state risparmiate.

Gli animali, con il loro fare, stavano dando l’allarme ed avvertivano con forza i Romani del fatto che i Galli stessero scavalcando la rocca nella quale erano da giorni asserragliati. Il contrattacco dei romani fu così forte che i Galli rinunciarono all’assedio.

Si narra che i Galli avessero voluto mille libbre d’oro come tributo per andarsene da Roma, usando, sembrerebbe, delle bilance truccate. Quando i Romani espressero il loro dubbio sulla cosa, il re dei Galli Brenno, gettò la sua pesante spada sulla bilancia, aumentando così il peso da pareggiare con l’oro e pronunciò in tono di sfida le famose parole “Vae victis!”, cioè “Guai ai vinti!”.

Questa frase è usata al giorno d’oggi per commentare in modo amaro una crudele sopraffazione o anche un brutto accanimento da parte di qualcuno nei confronti di un avversario che ormai non è più in grado di difendersi.